Primo di tre fratelli, Giosuè Carducci nacque a Valdicastello, frazione di Pietrasanta nella Versilia lucchese, il 27 luglio 1835 dal medico Michele Carducci e da Ildegonda Celli.
Il Padre, Michele Carducci era un uomo dal carattere irrequieto, irascibile e dalle idee politiche radicali: fu studente di medicina a Pisa e nel biennio 1830-31 si fece sostenitore della rivoluzione allora in corso in Francia.
Per questa scelta fu condannato prima al carcere e poi al confino a Volterra, in Maremma, lontano dalla più effervescente vita culturale della Toscana settentrionale. Terminato l’anno di confino, Michele tornò a Pisa dove si laureò si sposò con Ildelonga Celli, figlia di un orafo fiorentino caduto in disgrazia.
Successivamente i due si trasferirono nella nuova casa a Val di Castello e portarono con loro anche Lucia Galleni, nonna di Giosuè, rimasta vedova e priva di soldi a causa della ludopatia e dell’infedeltà del marito.
Dopo il fallimento della società mineraria per cui lavorava Michele, la famiglia Carducci cadde in disgrazia e nel 1836 si trasferì a Serravezza dove il dilagare del Colera rendeva necessaria la presenza di medici esperti.
Nel 1838 Michele Carducci ottenne il ruolo di Medico Condotto presso Bolgheri, in Maremma, allora feudo dei Conti della Gherardesca, i quali conservavano il possesso di numerose proprietà e contratti di mezzadria nelle terre lavorate dai contadini della popolazione locale.
Dopo due secoli in Versilia, la famiglia Carducci si trasferì in Maremma, a Bolgheri. Il piccolo Giosuè aveva appena tre anni ma furono sufficienti per legarsi fortemente a questo territorio, grazie soprattutto ai racconti dell’amata nonna Lucia. La Maremma rimase a tal punto impressa nell’animo del piccolo Giosuè come un luogo incantato e selvaggio da diventare una costante nella sua poetica.
Una gioventù errabonda e luminosa quella del Carducci che scorrazzava in lungo e in largo tra il piccolo borgo toscano e le campagne circostanti, crescendo tra le prime letture, le avventure in campagna e le amicizie con figli di butteri e contadini. Le cronache dell’epoca definiscono il piccolo Giosué come un bambino vivace, attivo e addirittura selvaggio, pare infatti che si amici persino un lupacchiotto addomesticato e un falchetto, con cui girò un’intera estate per le campagne di tutta Bolgheri.
Nel frattempo i genitori tentavano in tutti i modi di impartire a Giosuè una formazione classica: il padre lo avviava alla lettura latina di Fedro mentre la madre era solita leggergli l’Alfieri e le poesie di Berchet.
Inutile dire che l’irrequieto Giosuè non si piegò, anzi, le irose manifestazioni di suo padre che lo costringeva a giorni di reclusione in casa nei quali doveva leggere testi come “La Morale Cattolica” di Alessandro Manzoni o i “Doveri dell’Uomo” di Silvio Pellico, lo spingevano ancora di più a scorrazzare per le campagne e a ricercare il contatto con la natura e animali.
Un temperamento caldo quello del giovane Giosuè tanto che, alla fine, preso dalla disperazione, padre lo affidò al muratore Giuseppe Salvadori, meglio noto come “Bombo” dicendogli: <<Senti Bombo ho pensato per vedere almeno se si può addomesticare, di affidarti il bimbo. Fallo lavorare a tutta schiena, e se riuscirai a raddrizzarlo ti prometto un bel regalo.>> Dopo pochi giorni Bombo si rese subito conto che Giosuè detto “Tortolo” non era adatto a fare il manovale poiché passava gran parte del tempo a declamare poesie “pepate”, così decise di restituirlo al mittente.
Tra intemperanze e tentativi formativi andati male, Carducci portava avanti la sua sete letteraria. A 8 anni si tuffava nella lettura di poemi contemporanei come Il Veggente Solitario di Gabriele Rossetti mentre bollava Il Canzoniere di Petrarca che bolla subito come “Un libretto d’aritmetica”.
La sua fame di libri era tale che pare abbia letto in un solo giorno tutto l’Inferno di Dante Alighieri.
Da qui che inizia a scrivere di suo pugno i primissimi versi. Ancora una volta a parlarci di lui è testimonianza sempre il muratore “Bombo” che dichiara: <<Una volta, per la festa del Santissimo Crocifisso scrisse un sonetto così bene che fu rammentato per un pezzo da tutti. Io lo sapevo a mente, ma ora dopo tanti anni m’è passato: ma vi so dire che fece epoca allora>>.
Secondo il Saponaro, le prime liriche furono delle ottave in morte della civetta posseduta da un amico, a imitazione delle liriche di Catullo, autore che ormai era in grado di leggere fluentemente grazie agli insegnamenti impartiti dal padre. A seguire Giosuè scrisse una serie di terzine satiriche sulla defunta regina Maria Antonietta, bersaglio prediletto per il giovane che nutriva fantasie rivoluzionarie e un racconto composto in ottave intitolato La presa del castello di Bolgheri, e il primo sonetto dal sorprendente titolo di A Dio.
Tra le letture e i primi componimenti giovanili, Carducci perse l’occasione per innamorarsi. È proprio a questo periodo che si fa risalire l’infatuazione per la celebre “Bionda Maria”, che per anni i biografi e gli storici hanno cercato di ricondurre a una specifica persona. Ancora una volta giunge preziosa la testimonianza di Bombo:
<< […] vi posso assicurare che in fatto di dame non stava indietro a nessuno. Ce ne aveva bionde, brune e castagne, che diavolo!
Quanto mi fanno ridere quelli che vogliono cercare in Bolgheri “la Bionda Maria” del mi’ Tortolo! E non capiscono che Giosuè ha detto Maria, come avrebbe detto Carola, Catera o Vincenzina: e bionda, come avrebbe detto bruna, rossa e castagna; perché alla sua età non si può esser presi sul serio di nessuna. Di fatti a Bolgheri dio Marie ne son morte parecchie, qualche d’una è sempre in vita e tutte o quasi tutte, hanno voluto o vogliono essere “la bionda Maria”. Che vi dice questo? Che il Tortolo era vispo e che spartiva volentieri il su’ amore.>>
Per qualcuno, insomma, la ragazza non è altro che un artificio retorico che rappresenta le infatuazioni di Carducci per le ragazze mentre per qualcun altro la “Bionda Maria, pare fosse una ragazzina già avviata a essere una donna, di due anni più grande di Giosuè:
la verità rimane un mistero destinato, sino a oggi, a non essere più svelato.
All’età di 10 anni Giosuè si ammalò di Malaria e il padre nella primavera del 1846 lo inviò a Castagneto nella speranza di potersi curare grazie ad aria più salubre. Qui, ospite del barbiere Bernieri, Giosuè si dedicava alle sue idee rivoluzionarie e repubblicane. Sembra che il Bernieri lo portasse con sé nei suoi giri da parrucchiere per Signora e che Giousè recitasse poesie piene di fermento politico. Anche per questo divenne amico di Alessandro Scalzini, anch’egli di idee repubblicane. Con gli amici coniarono per gioco finte monete di carta e a si dividevano il bosco in province.
Alla fine delle febbri, sempre nel 1846, Carducci fu richiamato presso il padre a Bolgheri. Dove l’andazzo fu lo stesso. Ma fatti più grandi avrebbero presto mutato la vita della famiglia Carducci.
I moti del 1848 si abbatterono sull’Europa come una tempesta prevedibile.
Anche nel Granducato di Toscana e il piccolo feudo-comune di Gherardesca risentirono di questi movimenti. Se gli abitanti di Bolgheri erano storicamente più legati al Conte e alla nobiltà dell’epoca, quelli Castagneto rivendicavano un esteso accesso a caccia e pesca, il libero uso dell’acqua e delle terre che erano ancora soggette a un’amministrazione feudale da parte dei Della Gherardesca, e che i contadini coltivavano pagando una sorta di affitto che stava loro sempre più stretto.
Giosuè e i suoi amici, ormai adolescenti parteciparono simbolicamente alle proteste: eressero un approssimativo albero della libertà (sullo stile di quelli della Rivoluzione Francese), vi apposero lo stemma dei Della Gherardesca in cima e poi gli diedero fuoco.
Castagneto divenne il centro delle proteste e delle richieste di riforma terriera, e il Dottor Michele Carducci non esitò a dividersi fra i suoi doveri di medico e i suoi sogni di rivoluzione, e la cosa non sfuggì a chi era ancora fedele al Conte.
Le proteste della popolazione arrivarono fino all’orecchio del Granduca Leopoldo II che
Cedette alle richieste dei diritti di proprietà e d’uso: il 3 aprile 1848, circa 800 ettari di terre furono trasferiti in perpetuo agli abitanti del comune di Gherardesca, che tre giorni dopo riprendeva l’antico e attuale nome ufficiale di Castagneto.
Il padre Michele, mosso da alti ideali repubblicani, non voleva che quella di castagneto si trasformasse in una piccola riappropriazione terriera e soffiava sulla rivoluzione. La sua azione politica però lo porto a esporsi a tal punto che, nella notte fra il 22 e il 23 maggio 1848 la casa di Bolgheri dove i Carducci vivevano venne fatta bersaglio di numerose fucilate. Il colpevole era ignoto, ma il messaggio venne percepito chiaramente: il medico rivoluzionario, nel paese del Signor Conte, non era più gradito.
Fu così che la famiglia si trasferì presso Castagneto, ospitata in una casa della famiglia Espinassi-Moratti.
In un secondo momento Michele prese il figlio Giosué, all’epoca quattordicenne e lo portò
Prima a Pisa e poi a Livorno per conoscere Francesco Domenico Guerrazzi Giuseppe Montanelli, reduce dalle battaglie di Curatone e di Montanara. Scattati i primi fuochi dell’insurrezione livornese contro gli austriaci Giosuè conobbe eminenti del radicalismo e del patriottismo italiano e toscano.
Nel 1849, durante il breve e turbolento governo del Guerrazzi, il dottor Carducci, probabilmente sentendosi circondato dall’indisponibilità complessiva dell’ambiente a condividere di nuovo le sue idee radicali, scelse di lasciare Castagneto. Giosuè e i fratelli Dante e Walfredo avevano ormai, rispettivamente, 14, 13 e 8 anni.
La famiglia prima riparò presso l’allora sperduto paese di Lajatico, dove Michele Carducci trovò lavoro come medico interinale. Ma il soggiorno qui durò poco. Il Chiarini riporta che il medico venne alle mani con i contadini e, uscitone sconfitto, essi lo costrinsero a baciare un busto di Leopoldo II. La famiglia si spostò a Firenze, dove Giosuè inizierà le scuole superiori.